Parigi d'oro

il racconto fotografico in atlante infinito
flâneuse

"... Sai a volte mi chiedo come qualcuno possa realizzare un libro, un dipinto, una sinfonia o una scultura che competa con una grande città. Non ci si riesce, ci si guarda intorno e ogni strada, ogni boulevard, sono in realtà una speciale forma d'arte. E quando qualcuno pensa che nel gelido, violento e insignificante universo esiste Parigi ed esistono queste luci, insomma andiamo non succede niente su Giove o su Nettuno, ma qualcuno lassù dallo spazio può vedere queste luci, i caffè, la gente che beve e che canta.
Per quanto ne sappiamo, Parigi è il posto più cool dell'universo.."


Gare de Lyon
Le Train Bleu
Coco Chanel e Le Train Bleu
Parigi e il Jazz
Joséphine Baker

La Gare de Lyon
Situata nel XII arrondissement, non lontano dalla place de la Bastille, La Gare de Lyon è una delle più belle stazioni parigine, costruita in occasione dell’Esposizione Universale del 1900. Caratteristica è la torre, situata su un angolo dell’edificio, maestosa e di grande bellezza, dotata del più grande orologio della capitale. In occasione di una violenta tempesta il 26 dicembre 1999 venne danneggiato ed è stato rimesso in funzione solo il 15 febbraio 2005, ancora dotato del suo meccanismo originale, modernizzato dalla presenza di un sistema di motorizzazione e di sincronizzazione con il segnale orario ufficiale trasmesso in onde lunghe. In principio da questa stazione partivano treni per il sud e l'est della Francia; oggi fermano anche linee regionali e treni della RER, oltre che essere il capolinea delle linee TGV dirette in Italia e in Svizzera (dall'11 dicembre 2011, anche i treni per Basilea e Zurigo partono da questa stazione). La stazione è stata costruita su progetto dell'architetto Marius Toudoire che curò anche le decorazioni interne (il 14 agosto 1900 venne nominato Cavaliere della Legion d'onore per la sua partecipazione all'Esposizione Universale del 1900 a Parigi come architetto del Palazzo delle Manifatture Nazionali). Costruita su più livelli, è considerata un classico esempio di architettura contemporanea. L’imponenza del progetto aveva richiesto anche l’intervento di diversi artisti, fra cui il pittore Edmond Marie Petitjean con il quadro "Le Puys", Antoine Calbet, Jean-Baptiste Olive e molti altri. La stazione ospita un celebre ristorante, Le Train Bleu, che serve i suoi piatti e i suoi drink ai viaggiatori dal 1901 in un ambiente particolarmente decorato, meta irrinunciabile per gli amanti della più raffinata cucina francese, o tappa imperdibile anche solo per un tè da sorseggiare all’interno di saloni magnificamente decorati.

Le Train Bleu fa parte di quegli indirizzi mitici che solo Parigi può vantare. Un ambiente Belle Epoque che è rimasto intatto in tutta la sua magnificenza. In perfetto stile Secondo Impero, fu inaugurato in pompa magna il 7 aprile del 1901 dall’allora Presidente della Repubblica Emile Loubet. Sulle volte delle sue sale, più di quaranta dipinti di celebri artisti dell’epoca, raffigurano paesaggi e città serviti dai treni che partono dalla Gare de Lyon. Pregiate decorazioni in legno dorato e grandi specchiere aggiungono splendore e bellezza agli eleganti saloni. Nel 1972, l’allora Ministro della Cultura André Malraux fece classificare il ristorante Le Train Bleu tra i Monumenti Storici di Francia. Le Train Bleu fu scelto come nome, per omaggiare il treno di lusso che collegava Parigi a Ventimiglia percorrendo la Costa Azzurra a partire da Marsiglia fino al confine italiano, il treno notturno più charmant della Costa Azzurra.
Le Train Bleu

Non era un semplice mezzo di trasporto, ma una vera istituzione. Si partiva da Calais, in serata, e si arrivava a Mentone il giorno dopo, attraversando mezzo paese, per portare i turisti in Costa Azzurra, dalla Ville Lumière a Digione, Marsiglia e Nizza. Era l’epoca del Gran Tour, e le Train Bleu, con il suo ambiente raffinato dedicato all’alta società, rappresentava una tappa imperdibile di un viaggio in Europa. Ora, dopo un costoso restyling, questo gioiello su rotaie torna a marciare (sempre di notte), unendo la Gare d'Austerlitz di Parigi con Nizza, dove arriva ogni giorno alle 9.11 del mattino. L’itinerario è un tuffo d’antan, romantico, evocativo, affascinante, che riporta a un'epoca dorata, fatta di atmosfere sospese e salotti mondani. Basta salire a bordo per tornare al 1922, quando il convoglio iniziava il suo lungo percorso: ai primi tempi si chiamava “Calais-Méditerranée-Express”. Presto però venne soprannominato Le Train Bleu, per via dei colori dei lussuosi arredi dei wagon-lit, nome che diventerà ufficiale poi nel 1947. Amato da icone della moda e delle arti, come Coco Chanel, Jean Cocteau e Marlène Dietrich, questo esclusivo collegamento notturno era stato abolito dalle ferrovie francesi nel 2007, soffocato dal boom dell'alta velocità e dei voli low cost. Viaggiare su Le Train Bleu oggi fa rivivere tutta la magia dell’epoca. Tornano in vita quelle serate oniriche in cui Agatha Christie scriveva il romanzo “Il mistero del treno azzurro”. Ispirato dalla bellezza dei luoghi e dalla magia della situazione, il grande Sergej Djagilev intitolava proprio Train Bleu il suo balletto, composto da Darius Milhaud nel 1924 su soggetto di Jean Cocteau. Sembra ancora di sentire le risate di Zelda e Francis Scott Fitzgerald, che s’intrattenevano ore nella carrozza bar e tra i fiumi di champagne trasformavano il viaggio in una festa itinerante. Ma i vacanzieri illustri che hanno soggiornato tra le lussuose carrozze del treno non si contano, dai reali, come Principe del Galles, futuro Re Edoardo VIII, a uomini di stato, vedi Winston Churchill, oltre ai tanti scrittori e artisti, come Evelyn Waugh, Somerset Maugham e Charlie Chaplin. Nel 1924, a le train bleu si ispirò il balletto, ovvero un'operetta “danzata”, secondo il suo creatore Serge Diaghilev, per i Ballets Russes: musiche di Darius Milhaud, libretto di Jean Cocteau, scenografie di Henri Laurens, tela del fondale e programma di Pablo Picasso, costumi di Coco Chanel: un cast che da solo faceva l’evento. Chanel, per questo balletto d'avant-garde, disegnò abiti sportivi in jersey che esprimevano la sua concezione della moda del tempo. I protagonisti di questo progetto le sarebbero rimasti vicini per il resto della sua vita: grazie a loro Gabrielle Chanel poté compiere il passaggio dalla moda allo stile e considerare il proprio lavoro come un'opera d’arte, conquistando perciò un linguaggio che fosse insieme moderno e senza tempo. Il progresso tecnologico trasformò lentamente Le Train Bleu in un treno normale. Il servizio aereo di linea tra Parigi e Nizza iniziò nel 1945, portando via gran parte della ricca clientela. Dopo il 1978, il treno ha aggiunto auto con cuccette per attirare passeggeri più borghesi. Ma fino alla fine degli anni '60 Karl Lagerfeld, art director della maison Chanel, offriva spesso al suo entourage (Antonio, Juan, Corey & Donna), un tuffo nel passato a Saint Tropez, a bordo de Le Train Bleu.

Coco Chanel e Le Train Bleu
Negli anni venti, a Parigi, Coco Chanel, era ormai un’affermata creatrice di moda, con il suo stile innovatore, sobrio ed elegante nello stesso tempo, che chiudeva finalmente l’epoca delle crinoline e dei drappeggi, e apriva lo sguardo sulla donna nuova del secolo nuovo, la donna “femminile per paradosso”, come hanno giustamente scritto del suo stile, che sottolineava con semplicità i contorni del corpo, fino ad allora sepolto sotto metri infiniti di stoffe e sbuffi, grazie ad abiti maschili appositamente e genialmente rivisitati. Ecco i colori Chanel, bianco e nero, ma anche beige, blu marine, grigio, la sorpresa dei primi pantaloni femminili, ispirati a quelli da cavallerizza, i primi abiti sportivi, lo stile alla marinara, la gonna sotto il ginocchio, i capelli corti, i cappellini senza più velette e trionfi di frutta e fiori, fino al 1926, l’anno in cui Coco lanciò “La petite robe noire”, il primo tubino nero, il simbolo più famoso del suo stile. Il periodo storico pieno di fermento e di novità, tra gli ultimi anni dell’ottocento e i primi trenta del novecento, è quello degli anni della rivoluzione industriale, di quella bolscevica, con la recente e drammatica prima guerra mondiale, la pubblicazione delle opere di Freud e la nascita della psicanalisi, gli studi di Marx sul capitalismo e sul lavoro operaio e la nascita di concetti come quello di alienazione del lavoro e società di massa. Tutto ciò portò in primo piano riflessioni e critiche sulla sconcertante precarietà dell’uomo del XX secolo, sempre più solo in mezzo alla tragedia del mondo, insoddisfatto, in balia dei propri bisogni e delle proprie frustrazioni. Nello stesso tempo, le nuove invenzioni, l’automobile e i mezzi di trasporto, le nuove macchine utilizzate per agevolare il lavoro delle industrie, il cinema, di cui conosciamo l’impatto enorme sulla società, la radio, il fonografo e la nuova musica d’oltreoceano, con le loro peculiarità di immediatezza, spontaneità, movimento, rapidità, diedero nome e ritmo a quegli anni: era nata l’età del jazz. Non meno importante, fu l’impatto delle nuove correnti d’avanguardia artistica: in Italia era nato il Futurismo, a Zurigo il Dadaismo, in Germania l’Espressionismo, in Francia il Surrealismo. I loro manifesti parlano al nuovo uomo, proclamando la loro nuova visione della realtà e dell’arte, iconoclasta, dirompente, esplosiva. Il surrealismo, in particolare, cercò nel teatro la sintesi di tutte le arti, non lo specchio, l’imitazione, della realtà: solo il teatro poteva “tradurre la realtà, in un insieme coerente di pittura, danza, mimo e arte plastica, parole, dramma e satira”. Le arti quindi, non dovevano più sforzarsi di imitare la realtà (come scrisse Apollinaire, massimo poeta surrealista), ma nella loro sintesi, che poteva compiersi solo sul palcoscenico, creare un’allusione del reale: la realtà non era più un oggetto da replicare, ma un’infinita serie di sfaccettature individuali, ognuna soggettiva, ognuna valida come visione del reale. E’ in mezzo a questi ribaltamenti storici e culturali, e soprattutto nella capitale per eccellenza del nuovo secolo, Parigi, che Chanel si trovò incastonata, ispirata dal nuovo tempo, dalle nuove condizioni esistenziali, dalle novità del dopoguerra, dai nuovi eclettici, geniali amici, tra i quali, Jean Cocteau, poeta, regista, romanziere e drammaturgo surrealista. Come sintetizzano le parole di Cocteau: “Un’opera d’arte deve soddisfare tutte le muse. La chiamo: prova del nove” , il teatro diventò la più evidente espressione surrealista, in quanto spazio adatto a coniugare la sintesi di tutte le arti e liberare l’estro e la genialità dell’uomo moderno, che ritrovava così la propria singolarità nella collettività dell’arte. E’ sulla spinta di questi fermenti, dissonanze poetiche e pittoriche, flussi energetici liberatori, libertà d’espressione, che Coco Chanel si inserì, con grande talento, come costumista.

Cocteau, nel 1922 la invitò a disegnare i costumi della sua Antigone, riscrittura basata sull’opera di Sofocle. Ecco apparire in scena l’essenzialità classicheggiante di Chanel: non più costumi ottocenteschi ridondanti e finti, ma semplici tuniche di lana rustica, ornate soltanto di greche ricamate. Più che un costume, il gesto creativo. Come gesto creativo, furono le scene dipinte da Picasso, altro grande amico di Chanel. Il 20 giugno 1924, a Parigi, al Thèatre des Champs Elisées, andò in scena Le Train Bleu, un libretto di Cocteau, uno dei balletti più divertenti ed ironici di Sergej Diaghilev, il creatore dei celeberrimi Balletti russi, che chiamò Chanel a disegnare i costumi. Pura poesia, opere d'alta moda contemporanea che creano inevitabilmente una connessione spazio temporale con il passato della maison e con Gabrielle Chanel stessa, in perenne affinità elettiva con il mondo del balletto. Lei che amava la danza in quanto movimento e come metafora di libertà. Quando realizzò i costumi di scena per Le Train Bleu, mettendo a servizio della danza la sua visione stilistica, audace e rivoluzionaria, e realizzando così abiti che furono espressione massima della sua idea di comfort e libertà di movimento applicata alla moda. I suoi costumi erano così contemporanei che avrebbero potuto essere indossati non solo sul palco, ma anche nella vita reale. Lei che non tollerava nessuna costrizione, applicò dunque questo concetto in maniera totalizzante tanto sulle sue collezioni quanto nei suoi lavori per il balletto, in ossequio a quel principio guida del less is more che le faceva affermare: "Rimuovi sempre, toglie sempre qualcosa. Non aggiungere mai nulla ... Niente è più bello della libertà del corpo!". L'opera per il balletto Le Train Bleu fu fondamentale nell'accentuare la visione stilistica di Gabrielle, tanto da trasmettere attraverso quegli abiti di scena la quintessenza della sua arte.In Le Train Blu si mescolavano acrobazie, pantomime e satira del tempo (Chanel and her World,Edmounde Charles - Roux p.296). Cocteau ambientò il balletto in una spiaggia in cui i personaggi non facevano nulla se non flirtare e scherzare tra di loro. Era quindi, ironico, irriverente, divertente. I protagonisti erano quattro: un nuotatore, (Anton Dolin famoso ginnasta), una ragazza in costume da bagno chiamata La Perlouse, (Lydia Sokolova), una campionessa di tennis (ispirata ad una campionessa reale dell’epoca, Susanne Lenglen), interpretata da Bronislava Nijinska (sorella di Nijinski e coreografa del balletto), e un giocatore di golf (Leon Voizikovski). Il resto dei personaggi formava il corpo di ballo, Les gigolos e Les poules.

La partitura musicale era di Darius Milhaud (compositore francese d’avanguardia), e rispecchiava alla perfezione l’atmosfera allegra e il carattere superficiale dei personaggi. In questo balletto la danza si mescolava a gesti tipici del mondo della ginnastica, del tennis e del golf. L’armonia elegante di braccia e gambe, si frantumava in una parodia di movimenti sportivi, le vibrazioni sinuose di corpi in movimento, si scomponevano nei gesti sincopati tipici degli sports, creando una visione nello stesso tempo comica e classica. Il famoso scultore Henry Laurence creò una scenografia cubista con cabine da bagno e un mare surreale sul fondale. Il sipario fu dipinto da Pablo Picasso ed è passato alla storia con la sua raffigurazione di donne spropositate che corrono sulla spiaggia, con i capelli al vento. Ed ecco i costumi: i personaggi, compreso il corpo di ballo, furono vestiti con costumi da bagno in jersey, molto utilizzato da Chanel per le sue creazioni di moda, che non è una stoffa vera e propria ma un tessuto a mano a maglia rasata (la cui lavorazione è originaria dell’isola di Jersey), tranne il giocatore di golf e la campionessa di tennis. Dei ballerini in costume e occhiali da sole, orologi da polso, bracciale, sandali di gomma ed accappatoio non si erano mai visti. L’insieme dei personaggi risultò divertente ed originale, ai ballerini piacque meno che agli spettatori, visto l’insieme ingombrante di accessori, portati al parossismo da Chanel, come ad esempio gli orecchini abnormi e la racchetta da tennis, che rifacevano il verso anche al ricco pubblico reale presente in sala (si dice che gli orecchini impedissero a Lydia Sokolova di percepire le battute dell’orchestra). Chanel firmava, con questi costumi, l’opera teatrale, con il suo stile inconfondibile, sobrio e lineare, al di fuori di certa ambiguità ottocentesca, rifiutandosi di creare costumi appositi, disegnando secondo il suo stile dei moderni bagnanti, dei frequentatori tipici delle spiagge dell’epoca. Sullo sfondo di un mare enorme, i suoi bagnanti colorati di rosa e azzurro, rappresentarono novità prorompenti, così come prorompente nella moda era stata Coco Chanel, inaugurando finalmente il rapporto tra il teatro contemporaneo e l’alta moda. Coco "replicò" nell'aprile del 1929 creando i costumi per Apollon Musagète, opera composta da Stravinsky, con la coreografia di Balanchine. E se la morte di Sergei Diaghilev nell'agosto del 1929 pose fine all'avventura dei Balletti Russi, quella di Chanel per l'opera proseguì con Salvador Dalí con cui creò i costumi del balletto Bacchanale. Un'eredità e un patrimonio, quello creato da Gabrielle Chanel per il mondo della danza, che ancora oggi continua ad alimentarsi non solo all'interno della maison parigina, ma a plasmare una visione estetica che lega indissolubilmente la moda alla libertà di movimento e al comfort. E non può essere più poetica e contemporanea di così.

“Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita,
essa ti accompagna perché Parigi è una festa mobile”
Ernest Hemingway

Parigi e il Jazz
Negli anni Venti, che furono definiti “folli” in Francia e “ruggenti” negli Stati Uniti, Parigi era il centro del mondo e viveva un’epoca di grandi mutamenti in tutti i campi, da quello sociale alla letteratura, fino alle arti figurative; l’Art Nouveau lasciava il posto al Déco e nascevano movimenti di rottura come il Dada e il Surrealismo. I costumi liberali, il fermento intellettuale, il clima cosmopolita, i teatri, i caffè, il jazz, le gallerie d’arte attiravano da ogni parte del mondo nella capitale francese musicisti, scrittori, coreografi, cineasti e artisti in cerca di fortuna e celebrità. Per una straordinaria alchimia, nel periodo tra le due guerre, Parigi divenne il luogo dove tutto accadeva, “il posto migliore dove essere giovani”. Nella Ville Lumière si respirava una stimolante atmosfera di libertà, terreno fertile per uno straordinario fermento creativo: gli artisti si mettevano in gioco sperimentando nuovi linguaggi espressivi, in un caleidoscopio di stili che coniugava il desiderio di dare vita a una nuova armonia dopo la carneficina della guerra e la volontà di rompere con il passato e inventare linguaggi assolutamente originali. Qui si ritrovarono Hemingway e Fitzgerald, Pound e Faulkner, Apollinaire, Breton, Gide, Beckett, Valéry e Gertrude Stein, alla quale si deve la definizione di “generazione perduta”, resa popolare da Hemigway, che indicava i letterati americani fermatisi in Europa dopo la prima guerra mondiale. Il loro punto d’incontro era una piccola libreria, “Shakespeare and Company”, fondata da Sylvia Beach, una giovane americana che viveva a Parigi dal 1916. All’esperienza di questi anni Hemingway dedicherà molto più tardi il romanzo autobiografico Festa Mobile, pubblicato postumo, in cui ripercorre il suo cammino da aspirante scrittore ad affermato intellettuale, raccontando non solo la propria formazione, ma soprattutto offrendo al lettore lo spaccato di una Parigi in stato di grazia, protagonista di una vita artistica e culturale irripetibile. Sfila nelle sue pagine una folla di personaggi eterogenei, le cui vite s’incrociavano nei caffè, nei locali notturni e nei salotti letterari e mondani: amicizie di lunga o breve durata, a volte drammaticamente interrotte, storie amorose a geometria variabile, in un tourbillon nel quale dominava la sete di vivere tutto e subito. Oltre ad Hemingway, c’è la voce pura e lirica di Hadley Richardson, moglie di Hemingway. Il romanzo di Paula McLain “Una moglie a Parigi”, racconta di quel periodo, scava a fondo nei tracciati emotivi dei personaggi, facendo scoprire l’universo parigino degli anni venti scovando particolari sui luoghi e i tempi che furono.

Le donne erano più protagoniste, le prime conquiste nel mondo del lavoro e ruoli nuovi in una società ancora legata ai clichés ottocenteschi. Tutto si accorciava, e non solo nella moda, dove si sforbiciava la lunghezza delle gonne e sparivano i grandi cappelli dall’ala ampia e ingombrante, sostituiti da piccole cloche aderenti alla testa: anche qui le forbici imperversavano nel nuovo taglio corto, detto alla garçonne – dal titolo di un romanzo che nel 1922 fece grande scalpore – quella garçonne (la “maschietta”) che sostituiva il mito della femme fatale. Regina delle notti parigine Joséphine Baker, cantante e danzatrice arrivata in tournée dagli Stati Uniti nel 1925 con la Revue Nègre, divenne in breve la vedette del Teatro degli Champs-Elysées e la prima star nera di Parigi. Georges Simenon la definì una “vera sintesi di voluttà animale, giovane e vivace come il jazz, trepidante, ridente, brutale e candida”, mentre le signore sulla spiaggia di Deauville scoprivano il fascino dell’abbronzatura – divenuta improvvisamente di moda – nel tentativo di assumere un colorito che si avvicinasse a quello della “Venere nera”; una novità rivoluzionaria, che ribaltava la tradizionale convinzione secondo la quale la carnagione delle signore doveva essere pallida ed eterea, dato che l’abbronzatura era l’inevitabile conseguenza del lavoro nei campi.

Grandi maestri della modernità in quegli anni raggiunsero l’apice della propria carriera: Matisse, Mondrian, Picasso, Braque, Modigliani, Chagall, Duchamp, De Chirico, Miró, Magritte e Dalí testimoniavano in dipinti, sculture, costumi teatrali, fotografie, ready made e disegni una stagione esaltante che vide fiorire, intrecciarsi e confrontarsi le principali tendenze nell’arte del Novecento. Il carattere cosmopolita e bohémien di quegli anni si esprime attraverso i ritratti e i nudi della cosiddetta “Scuola di Parigi”, alcuni giovani artisti stranieri – tra i quali Modigliani, Chagall, Van Dongen – le cui opere sono caratterizzate da un linguaggio figurativo libero e individuale. Nello stesso periodo, Picasso e Braque ripensano il cubismo in uno stile elegante e misurato, che Picasso trasforma in un moderno classicismo, rielaborando soggetti tradizionali come le bagnanti o le maschere della commedia dell’Arte, i Pulcinella e gli Arlecchini, protagonisti anche in opere di Severini e Dérain; Matisse e Bonnard si esprimono con toni più naturalistici nelle sensuali figure femminili che popolano i loro dipinti. Con il dadaismo e il surrealismo irrompono sulla scena l’esuberanza creativa e lo spirito radicale dei movimenti d’avanguardia. Ironiche, provocatorie e iconoclaste, le opere dei dadaisti prendono di mira le convenzioni della società borghese, mentre i surrealisti inseguono un progetto utopistico di valore universale: l’intento di restituire al mondo un significato nuovo, aprendo la strada alla liberazione spirituale e materiale dell’umanità, percorre le opere di Ernst, Miró, Magritte, Giacometti e Dalí, dense d’immagini oniriche e inquietanti, sospese tra echi di antichi miti e voci dell’inconscio. Nel 1925, in Francia, la Revue nègre, eseguita al Théâtre des Champs-Élysées, mise in risalto la cantante e ballerina Joséphine Baker . Organizzato da Caroline Dudley Reagan, questo spettacolo musicale di grande successo, in cui è presente anche Sidney Bechet, permette al jazz di essere ampiamente distribuito. Ray Ventura, accompagnato dai “suoi studenti universitari”, incorporò il jazz nella sua musica negli anni '30, come possiamo ascoltare ad esempio in Tout va très bien Madame la Marquise (1935). Anche altri cantanti popolari incorporano il vocabolario del jazz nel loro repertorio, come Jean Sablon o Charles Trenet. Nel 1926, Fred Elizalde e i suoi studenti universitari di Cambridge furono trasmessi dalla BBC . Il jazz diventa così un elemento importante delle orchestre da ballo ei musicisti si moltiplicano.Alla fine degli anni '20, la moda vacilla, lasciando il posto a diversi "mondi jazz": club, riviste, etichette discografiche installano il jazz nel panorama culturale.In Francia, l' Hot Club de France Quintet, creato nel 1934, è rappresentativo dell'arrivo dello swing. Ascoltiamo una combinazione di jazz afroamericano e stili sinfonici: l'influenza di Paul Whiteman è evidente, il suo stile stesso deriva dalle stesse fonti. Django Reinhardt rende popolare il jazz gitano, un misto di swing americano, musette e musica tradizionale dell'Europa orientale; gli strumenti principali sono la chitarra a corde d'acciaio, il violino e il contrabbasso. Gli assoli vengono scambiati da un musicista all'altro, la sezione ritmica è fornita dalla chitarra e dal contrabbasso. La combinazione di violino e chitarra, caratteristica del genere, potrebbe essere ispirata al duo Eddie Lang / Joe Venuti, che negli anni '20 pubblicò dischi e tenne concerti in Francia. L'opera di Hugues Panassié Jazz Hot, pubblicata nel 1934, è un elemento cruciale nella definizione del jazz in Francia, sottolineando l'importanza dell'improvvisazione e dell'oscurità e facendo di Louis Armstrong il musicista jazz per eccellenza.
Il novecento e i suoi vent'anni
Parigi, un giovane sceneggiatore americano con ambizioni da romanziere accetta un passaggio su una curiosa auto d’epoca. Alla fine della corsa, si trova catapultato nella Parigi degli Anni ‘20, a bere e chiacchierare con personaggi del calibro di Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Pablo Picasso e Salvador Dalì, trovando, insieme a un nuovo amore, anche l’ispirazione perduta. È la trama di “Midnight in Paris”, film di Woody Allen di qualche anno fa, che rende omaggio a un’epoca di straordinario fermento sociale e culturale: i Roaring Twenties, i “ruggenti” Anni ‘20. Il protagonista Gil, interpretato dall’attore Owen Wilson, considera questo periodo storico alla stregua di un’età dell’oro, un tempo ormai perduto in cui tutto era più bello, più intenso, più ricco di signifi cato. Il film ci dimostra, alla fine, che lo sguardo nostalgico verso le epoche che ci hanno preceduto è un’aspirazione ricorrente dell’animo umano. Tuttavia nessuno - nemmeno Woody Allen! - oserebbe mai negare come il periodo che va dalla fine della Prima Guerra Mondiale alla crisi del 1929 sia stato uno dei più affascinanti della storia contemporanea. Il jazz, l’art déco, le prime avvisaglie della rivoluzione femminile: in questo decennio assistiamo a fenomeni di portata straordinaria, che influenzeranno l’arte, la cultura e il costume per molte epoche a venire. Rimanendo in tema cinematografico, un’altra recente pellicola di successo ha raccontato con dovizia di particolari le atmosfere sfavillanti di quel periodo: nell’ultimo film ispirato a Il Grande Gatsby, romanzo capolavoro di Fitzgerald, ci tuffiamo a capofitto nel clima festaiolo e spensierato di un’epoca che, complice il boom industriale e l’euforia seguita alla fine della Grande Guerra, sembra guardare al futuro con indistruttibile ottimismo. “Ruggente” è, prima di tutto, l’economia americana del dopoguerra, così come il suo riflesso su quella europea e le inevitabili conseguenze sullo stile di vita degli abitanti tanto del Nuovo quanto del Vecchio Continente. “Ruggente” è il mito del progresso in cui tutti sembrano contare così tanto: solo nel 1928, per fare un esempio, viene scoperta la penicillina, messo a punto il motore a reazione, lanciata la pellicola cinematografica a colori. “Ruggente” è anche l’arte, con l’esplosione del Futurismo, movimento artistico che celebra il dinamismo, la velocità, il movimento; nata in Italia con il celebre Manifesto di Marinetti, questa corrente artistica e di pensiero si diffonde ben presto in tutto il mondo, andando poi ad allinearsi con le ideologie politiche dei fascismi. Un altro spaccato che tanta letteratura e tanto cinema ci offrono sugli Anni ‘20 è quello che riguarda il jazz, forse il più grande fenomeno di costume dell’epoca. Nel periodo che va dal 1918 al 1928, la cosiddetta Jazz Age, questo genere musicale nato tra gli afroamericani di New Orleans si impone a livello mondiale. Come spesso accade nella storia del XX secolo, è New York a farsi portavoce della nuova tendenza: nonostante il proibizionismo, si moltiplicano i night club dove si suona, si danza e si beve fino all’alba. Protagoniste di questo clima effervescente sono soprattutto le donne, che cominciano in questi anni a prendere coscienza del proprio ruolo e delle proprie aspirazioni. Le ragazze iniziano a voler studiare, fumano e bevono proprio come gli uomini, fanno propri atteggiamenti più liberi e disinibiti, lontani anni luce da quelli della Belle Epoque. Sono gli anni in cui, a Parigi, Coco Chanel cambia la moda per sempre e, con essa, la concezione stessa della figura femminile che, a cominciare dalle nostre nonne, non sarà mai più la stessa. Dopo la prima guerra mondiale, Parigi è stata una calamita per musicisti, scrittori, poeti e artisti afroamericani. Hanno portato jazz a Parigi, e alla fine degli anni '20 c'erano oltre 300 jazz club, bar e cabaret, per lo più a Pigalle. Questa è la storia di come Harlem è venuto a Parigi e ha presentato il French to Jazz.
Joséphine Baker

“Io credo di avere una missione su questa terra, quella di aiutare i popoli a diventare amici e fare in modo che capiscano prima che sia troppo tardi”.
Joséphine Baker è ricordata dalla maggior parte delle persone come la stravagante intrattenitrice che ha guadagnato fama e fortuna a Parigi negli anni Venti, con il suo gonnellino di banane e i suoi capelli corti. Donna dall’inarrestabile sete di giustizia nella vita è stata tante cose, ballerina, cantante, ma anche una spia, una partigiana e un’attivista per i diritti civili. Ha vissuto con libertà il suo corpo, la sua sessualità e la sua bellissima idea di famiglia... La sua storia
I vinili dei grandi della musica jazz
Paris Jazz Corner, 5 Rue de Navarre, Parigi
Il charleston, lo shimmy, il jazz: dopo la guerra, lo stile americano fa impazzire il pubblico più mondano, soprattutto per quel che riguarda la musica. Si respira libertà e si balla su sonorità completamente nuove: i cabaret e le balere parigine si animano di una vivacità mai vista prima, merito anche della diffusione del grammofono e del fonografo. Se siete amanti della musica del periodo, a due passi del Giardino Botanico di Parigi, si trova Paris Jazz Corner. L'assortimento di vinili è folto e il jazz la fa da padrone. In sottofondo si può udire Sidney Bechet, Si tu vois ma mère, parte della colonna sonora di Midnight in Paris, il sassofonista e clarinettista soprannominato le dieu, “il dio”, dagli esistenzialisti.
Uno sguardo alla Parigi degli anni 60'
Parigi, a partire dagli anni 50 del novecento, vide affluire nelle sue strade innumerevoli artisti americani. Era accaduto un po’ lo stesso dopo il primo conflitto mondiale. Allora erano, soprattutto, scrittori e pittori. Negli anni 50 e 60 una nuova ondata di artisti made in USA si riversò sulla capitale francese. Scrittori, ma anche musicisti. Vi erano poeti come Allen Ginsberg, Peter Orlovsky e Gregory Corso, scrittori come William Burrohugs e Brion Gysin; moltissimi erano anche i musicisti jazz. Il batterista Kenny Clarke, o il mitico pianista Bud Powell e poi, solo per citarne alcuni, Jimmy Woode e Francy Boland. Sono gli anni delle “Cave”: le cantine. Locali in cui gruppi musicali d’avanguardia si esibiscono per tutta la notte. Alcuni di questi gruppi sono, o diverranno, assai famosi. Famosi come i locali notturni che li hanno ospitati in strepitose quanto convulse serate.
Locali come Le Caméléon, il Tabou, Le Chat qui pêche, il Caveau de la Huchette, il Blue Note o il Club Saint Germain, divennero presto altrettanti templi di questa musica che, seppur non nuova, iniziava, veramente, solo in quegli anni a diffondersi in Europa.
Sono gli anni d’oro del Quartiere Latino, di St-Germain e di Montparnasse.


Le donne del Novecento

Emmeline Pankhurst viene arrestata davanti a Buckingham Palace durante
una manifestazione a sostegno del suffragio femminile in Inghilterra nel 1914.


La donna di fine Ottocento
Alla fine dell’Ottocento, in tutte le società del mondo occidentale, costume, morale e diritto sono ancora uniti nel sanzionare la diseguaglianza fra uomini e donne, il privilegio maschile, lo stato di minorità delle donne. La modernizzazione sta progressivamente allargando a pezzi di società i diritti di cittadinanza, ma le donne, tutte le donne, sono ancora escluse dalla partecipazione politica, sono ritenute incapaci di agire secondo ragione, sono sottoposte alla potestà del marito; non sono libere di gestire la propria vita e i propri beni; sono escluse da tutta una serie di percorsi di studio e di professioni; non godono di parità di trattamento con gli uomini nella famiglia e nel lavoro. Molte donne delle classi popolari lavorano (operaie in fabbrica, braccianti, contadine, serve, lavoranti a domicilio ma anche piccole commercianti, sarte, ricamatrici), spinte dalla necessità economica, ma l’aspirazione sociale diffusa anche fra loro è quella di essere, come le donne dei ceti agiati, spose e madri all’interno della famiglia, un modello femminile che si è imposto nella società borghese del XIX secolo e che ha segregato la donna borghese in casa più delle sue antenate non borghesi.
La ‘rivoluzione femminile’ del Novecento
Alla fine del Novecento, la condizione, i comportamenti e l’immagine delle donne che nascono e vivono nel mondo occidentale appaiono profondamente trasformate. L’accesso delle donne a tutti i diritti formali, da quello alle professioni alla parità di trattamento con gli uomini nel lavoro e nelle istituzioni, la consistente partecipazione femminile ai diversi settori del mercato del lavoro, la straordinaria crescita dell’acculturazione femminile, il controllo della procreazione e la diminuzione del numero dei figli sono solo gli aspetti principali e più evidenti delle significative trasformazioni avvenute, di quella ‘rivoluzione femminile’ che ha messo in discussione e trasformato la rigida e precisa divisione dei compiti produttivi e dei comportamenti in base al sesso; una distinzione tra uomini e donne che, pur in una vasta gamma di varianti, è il quadro costante delle civiltà e culture del passato e ancora di tante aree del mondo presente.
Il cammino delle donne
Il cammino di queste trasformazioni socio-culturali non è lineare: prende vigore all’inizio del secolo, s’interrompe fra le due guerre, riprende dopo la Seconda guerra mondiale, accelera dagli anni Settanta del Novecento. È un cammino per l’intero secolo connesso alle trasformazioni complessive della società: l’industrializzazione crescente e l’inurbamento, che modificano i modi di vivere e sconvolgono la tradizionale divisione sessuale del lavoro; lo sviluppo scientifico e tecnologico, che permettono migliori condizioni di salute e una maggiore aspettativa di vita; la pace e la prosperità del secondo dopoguerra, che moltiplica la disponibilità di beni e servizi, le istanze libertarie del ‘68 che mettono in discussione l’autoritarismo nei rapporti sociali e in famiglia e a tanti altri fattori, fra cui non si può non ricordare la pillola anticoncezionale, che libera le donne dalle gravidanze non volute, e gli elettrodomestici prodotti in massa dalla fabbrica fordista, che diminuiscono la fatica del lavoro domestico. È un cammino che procede sempre più speditamente a mano a mano che la civiltà contadina si va evolvendo in società industriale e accelera a mano a mano che la stessa civiltà industriale diventa a forte tasso di occupazione terziaria. È un cammino irto di difficoltà e resistenze segnato da molte lotte politiche e sindacali e da molte battaglie femministe.
Dall’uguaglianza alla differenza
Nelle trasformazioni socio-culturali intervenute giocano un ruolo di primo piano la formazione, l’azione e la riflessione di un battagliero movimento femminista, diversificato al proprio interno, le cui iniziative si combinano con gli effetti del processo di modernizzazione economica e sociale. Si è soliti considerare come l’atto ufficiale di nascita dei movimenti femministi la Convenzione di Seneca Falls (USA) del 1848 che, tra gli inalienabili diritti delle donne, sottolinea quello di “rifiutare l’obbedienza” e di ribellarsi per conquistare l’eguaglianza di fronte alla legge, quell’eguaglianza tra gli individui già proclamata dalla Rivoluzione Francese ma poi declinata solo al maschile, come aveva denunciato Olympe de Gouges. I movimenti femministi assumono forme e obiettivi diversi nei diversi contesti e periodi. Sono particolarmente attivi, visibili e incisivi prima della Prima guerra mondiale e fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. La prima ondata del femminismo è all’insegna dell’emancipazione; in questa fase le rivendicazioni e le battaglie delle donne mirano a conquistare parità di diritti ovvero l’uguaglianza con gli uomini (“femminismo dell’uguaglianza”). Nella seconda ondata, dopo quella del primo Novecento, i movimenti femministi mirano alla “liberazione” della donna, ad affermare un’identità femminile non subordinata né assimilata a quella maschile, al riconoscimento e alla valorizzazione delle differenze di cui uomini e donne sono portatori (“femminismo della differenza”).
La prima ondata del femminismo
Il diritto di voto

Il “femminismo dell’uguaglianza” chiede che vengano cancellate le differenze tra i sessi consolidate nella cultura e nella vita occidentale e che si sono tradotte in discriminazione, subordinazione, esclusione. Chiede che le donne siano considerate eguali agli uomini per natura, cioè di pari valore e capacità; reclama l’accesso agli stessi diritti degli uomini e respinge come fattori di oppressione i ruoli e i caratteri tradizionalmente attribuiti alle donne. La battaglia per l’eguaglianza nei diritti (di voto, di accedere a tutte le professioni e alle cariche pubbliche, di gestire liberamente la propria vita e i propri beni, di pari trattamento nella famiglia e nel lavoro) si concentra inizialmente sulla lotta per il suffragio, ovvero per il diritto di voto, da cui il termine suffragette per definire le militanti di questi movimenti, attivi un po’ ovunque, ma soprattutto negli Stati Uniti, nei paesi scandinavi, in Gran Bretagna. Fra Ottocento e Novecento le suffragette irrompono sulla scena pubblica e impongono le donne come un soggetto politico autonomo, capace di decidere e di agire senza la tutela di padri, mariti, legislatori o preti. I risultati concreti tuttavia sono scarsi: all’inizio del Novecento solo pochi stati riconoscono il diritto di voto alle donne (Finlandia, Norvegia e alcuni stati degli Stati Uniti). Una scossa potente arriva con la Prima guerra mondiale, che infrange (per necessità) alcune rigide barriere fra i sessi. Immobilizza infatti per quattro anni la popolazione attiva maschile, crea mancanza di manodopera in settori fondamentali dell’industria (innanzitutto quella degli armamenti), obbliga a utilizzare manodopera femminile anche per compiti importanti. Alla fine della guerra le donne sono in gran parte espulse dal mercato del lavoro, ma i cambiamenti portati dalla mobilitazione bellica trovano riscontro nel riconoscimento del loro diritto di voto in più paesi: in Austria e Gran Bretagna (1918), nei Paesi Bassi, in Lussemburgo e in Germania (1919), in Canada e negli USA (1920), in Svezia (1921). In altri (Francia, Italia e Belgio) sarà necessaria la più potente scossa della Seconda guerra mondiale; fra gli ultimi, la Grecia nel 1952, la Svizzera nel 1971, il Portogallo nel 1976. La prima ondata del femminismo, dunque, ottiene il massimo dei risultati all’indomani della Prima guerra mondiale, proprio quando sostanzialmente si conclude. Il diritto all’istruzione, in quanto passaggio essenziale per uscire dalla soggezione economica e culturale, è per quasi due secoli al centro della riflessione e delle iniziative femministe. Alla fine dell’Ottocento, il secolo della scuola, l’istruzione elementare obbligatoria è diffusa nella maggior parte dei paesi. In Italia, la legge Casati del 1859 prevede l’obbligo scolastico di un biennio elementare anche per le bambine, pur rimanendo per lungo tempo inapplicata sia per i maschi sia soprattutto per le femmine. I percorsi formativi superiori restano, però, differenziati in maschili e femminili. La cultura dominante, rispecchiata nelle istituzioni scolastiche, ritiene infatti che le donne debbano acquisire competenze diverse da quelle degli uomini, dirette allo spazio loro riservato, ovvero la casa e la famiglia. L’istruzione per professioni qualificate e incarichi pubblici viene insomma riservata ai maschi e considerata per le femmine un inutile spreco di risorse, se non un danno per l’armonia familiare e sociale. Da qui la richiesta da parte dei movimenti a favore delle donne dell’accesso a tutti i percorsi formativi e a tutte le occupazioni, in particolare alle libere professioni. In molti paesi ciò avviene intorno agli anni Venti del Novecento anche se, fino alla seconda metà del XX secolo, pressoché ovunque, i livelli di istruzione superiore rimangono a netta prevalenza maschili. In Italia l’accesso all’università per le donne viene legalmente riconosciuto nel 1875, ma quello al liceo, il cui titolo è necessario per l’iscrizione all’università, nel 1883. Il titolo di studio, però, non garantisce ancora per lungo tempo l’accesso alle professioni. In Italia, ad esempio, l’apertura dell’avvocatura alle donne avviene nel 1919, ma solo nel 1963 viene affermato il diritto delle donne ad “accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie senza limitazioni concernenti le mansioni o i percorsi di carriera”. Lidia Poet prima donna laureata in Italia in giurisprudenza (1881), prima iscritta all’ordine degli avvocati, non può esercitare la professione.
Disparità geografiche nei diritti, stesso modello femminile
Soprattutto nella prima metà del Novecento, le donne esercitano diritti molto diversi a seconda del paese in cui vivono. L’emancipazione politica e civile delle donne è a lungo contrastata nei paesi di tradizione latina, segnati dal Codice civile napoleonico, e dove Stato e Chiesa cattolica si caratterizzano per posizioni molto conservatrici in materia di rapporto tra i sessi. Una situazione che non migliora con l’avvento dei regimi dittatoriali fascisti che propagandano una visione della donna come angelo del focolare, negano il divorzio, criminalizzano l’aborto, esaltano il valore legale della verginità e dell’onore. Nei paesi di Common Law, invece, il cammino per i diritti civili e politici delle donne è più facile e reso più veloce da diversi fattori, che vanno dalla precoce tradizione liberale all’altrettanto precoce industrializzazione, dal diritto propriamente detto (più contenzioso che normativo), all’etica protestante (che sostiene i diritti dell’individuo), all’influenza di significativi movimenti femministi. In quasi tutti questi paesi, alla fine degli anni Venti, sono acquisiti per le donne il diritto di voto e la parità civile. Tuttavia, l’emancipazione politica e civile raggiunta non intacca neppure in questi paesi l’ideale della donna casalinga e la divisione dei ruoli che vi è implicita, un modello che, fra le due guerre, radio e cinema contribuiscono a diffondere e a uniformare, superando differenze sociali e regionali. A fronte del pesante svantaggio di partenza nei diritti politici e civili, le donne delle società industrializzate acquisiscono, fin dall’Ottocento e prima degli uomini, forme di protezione sul lavoro, volte a permettere il lavoro moderno (salariato e fuori casa, che allenta i legami di parentela) e a temperare una pesante situazione di sfruttamento che comporta gravi rischi per la salute, per la capacità riproduttiva, per la moralità familiare. Si tratta, però, di un riconoscimento fondato a lungo non su uno status di uguaglianza, ma sulla tutela di un soggetto debole, che necessita di protezione. In Italia le prime norme a tutela delle donne lavoratrici, peraltro poco e lentamente applicate, risalgono agli inizi del Novecento e solo nel 1977, per la prima volta, viene introdotto il principio di parità di trattamento e di opportunità sul lavoro tra uomini e donne e non più solo quello di tutela delle lavoratrici.
L’estensione dei diritti
Dopo la Seconda guerra mondiale, in un clima favorevole al diffondersi dei diritti, sono le Costituzioni degli Stati democratici a sancire in Occidente l’eguaglianza e la parità dei diritti fra i sessi. L’eguaglianza costituzionale viene attuata più o meno velocemente nei diversi contesti. Il diritto di voto si estende rapidamente pressoché ovunque; al contrario l’acquisizione di diritti civili incontra ancora a lungo tenaci resistenze. Ne è un chiaro esempio l’Italia dove, pur se la capacità giuridica è stata riconosciuta nel 1919, solo con la Riforma del diritto di famiglia del 1975 viene eliminata la patria potestas che attribuisce al marito tutte le scelte e le decisioni familiari, dall’educazione dei figli al luogo di residenza; dove le leggi sul divorzio (1970) e sull’aborto (1978), approvate tardivamente, devono poi superare la prova di referendum popolari indetti per abrogarle e dove solo nel 1981 la legge abroga il delitto d’onore e il matrimonio riparatore; dove solo nel 1996 la violenza sessuale diventa un delitto contro la persona e non “contro la moralità pubblica”.
Dal secondo dopoguerra, nelle società occidentali, è in forte crescita l’occupazione femminile, in forte espansione l’accesso delle ragazze all’istruzione superiore e crescente il riconoscimento formale dei diritti alle donne. Ciononostante, nella mentalità comune continua a essere dominante, fino a gran parte degli anni Sessanta del Novecento, il tradizionale modello femminile che vede nella donna casalinga la vera vocazione femminile, né si sono sostanzialmente trasformati i rapporti tra uomini e donne, ancora caratterizzati, sia nella sfera pubblica sia privata, da molte forme di prevaricazione e privilegio maschile (spesso ancora anche legale). Nonostante le conquiste conseguite, le donne restano imprigionate in un destino casalingo di vita e felicità, in quella che Betty Friedan, in uno dei testi fondamentali per il femminismo (insieme a Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf e Il secondo sesso di Simone de Beauvoir), definisce la “mistica della femminilità”, ora potentemente diffusa anche dalla televisione. Le donne restano insomma una “maggioranza oppressa”. Le leggi da sole non bastano per garantire l’accesso effettivo ai diritti, per “liberare” davvero le donne negli aspetti privati della loro esistenza: sono necessarie trasformazioni sociali e culturali profonde.

La seconda ondata del femminismo
Dopo quasi mezzo secolo, nel contesto degli anni Sessanta/Settanta del Novecento, i movimenti femministi ritornano prepotentemente sulla scena e spostano l’attenzione dall’emancipazione alla “liberazione” delle donne. La critica fondamentale che rivolgono a una lotta basata solo sul riconoscimento di diritti è quella della loro pretesa universalità, di essere presentati cioè come espressione di un soggetto universale (l’Uomo, senza razza, sesso e ceto sociale), essendo in realtà espressione di un individuo preciso (bianco, di classe media e soprattutto maschio). La seconda ondata del femminismo contesta radicalmente la più antica e basilare forma di dominio, quella di un sesso sull’altro, quella all’origine dei rapporti di potere e di sopraffazione anche nelle società del presente. Si organizza come spazio autonomo nel quale decostruire e costruire l’essere donna. Passa dal terreno dei diritti da rivendicare a quello della definizione del soggetto di questi diritti (ovvero la donna), dall’uguaglianza di uomini e donne al riconoscimento e alla valorizzazione di un’identità femminile non subordinata né assimilata a quella maschile: all’uguaglianza nella differenza di genere. La nuova ondata di femminismo denuncia il patriarcato, le sue leggi, le sue immagini del femminile e sottopone a critica radicale i costumi sessuali, le abitudini e le convenzioni della vita quotidiana, i ruoli (sessuati) che uomini e donne rivestono nella vita sociale, nella coppia, in famiglia. Si interroga su che cosa sia una donna: Simone de Beauvoir fa iniziare Il secondo sesso proprio con la domanda: “Che cos’è la donna?” e si mobilita, spesso in modo provocatorio e plateale, soprattutto per la legalizzazione dell’aborto, in nome di una maternità consapevole, per la diffusione della contraccezione, per la richiesta di consultori femminili e servizi sociali. Propone e attua nuovi modelli di comportamento basati sulla equa ripartizione dei compiti all’interno della coppia e della famiglia, sull’autonomia del soggetto femminile, sulla libertà sessuale, sulla solidarietà fra donne. La seconda ondata di movimenti femministi ha dimensioni di massa negli anni Settanta, ma declina già negli anni Ottanta. Svolge, tuttavia, un ruolo di primo piano nelle trasformazioni sociali e culturali degli ultimi decenni del secolo, in quella svolta nei rapporti tra i sessi (e nella mentalità diffusa) che, dal punto di vista della storia di genere (che studia gli individui in quanto definiti dai ruoli sessuali e l’evoluzione delle loro relazioni), comincia a delinearsi realmente solo dagli anni Settanta del Novecento. Da allora sono rapidamente cambiati i ruoli sessuati, come ben evidenziano le trasformazioni della famiglia che, in modo sempre più netto, mostra una generale tendenza, al di là delle varianti nazionali, alla caduta della natalità, alla diminuzione dei matrimoni ufficiali, all’aumento dei divorzi, all’aumento della monoparentalità. Anche la mentalità comune sul maschile e sul femminile è senza dubbio cambiata e l’immagine delle donne è divenuta più complessa. Sono cadute molte barriere sociali e culturali che impedivano alle donne libertà, indipendenza, autorealizzazione e successo, ma ingiustizie e discriminazioni nei confronti del sesso femminile sono ancora presenti e in molti casi rimangono gravi. La violenza (fisica, sessuale, psicologica, economica) contro le donne, sia in casa che fuori, è una piaga diffusa in ogni paese e ambito sociale. Le donne continuano a essere sottorappresentate nei parlamenti nazionali e in tutti i posti di lavoro caratterizzati da status, potere e autorità. Sono ancora le donne a svolgere in famiglia la gran parte del lavoro casalingo non retribuito (i tre quarti del lavoro in Italia, secondo dati Istat del 2012) con la conseguenza, per le molte donne che lavorano anche fuori casa, di essere normalmente sottoposte a un doppio carico di lavoro. La svolta dunque è in atto e non è concluso il cammino delle donne, in oscillazione fra uguaglianza e differenza, strategie che sono fra loro alternative solo se l’uguaglianza viene declinata come uniformità, ovvero negazione della differenza.
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